Abitare l’Italia
Il “popolo dei senza parola”*, gli ultimi e dimenticati della società
italiana, cui la parola e la dignità di persone è stata
restituita dalla comunità ecclesiale laica di Sant’Egidio - che è una delle realtà
attive in Italia sul fronte della lotta alla marginalità e all’esclusione - sono
stati invitati dalla Presidenza della Repubblica a partecipare alle celebrazioni
per 150 anni della Unità d’Italia, dichiarando
con dipinti e parole la loro visione storica e critica di ciò che individualmente
hanno identificato come episodio o evento o personaggio particolarmente
significativo, nei 150 anni appunto attraverso i quali l’unità d’Italia si è costituita.
Nei laboratori sperimentali
d’arte della Comunità di Sant’Egidio, creati a Roma, dove con un lavoro sistematico
persone disabili sono quotidianamente sottratte alla indifferenza del mondo e
alla inconsapevolezza culturale, sono state create, 150 piccole pitture o assemblages
da 150 di loro, sono stati elaborati testi , memorie e scritture, di cui ciascuno
si è assunta libera responsabilità. Un
noto artista internazionale, Anton Roca, è stato inoltre invitato a realizzare
una sua opera insieme ad alcuni di loro, responsabilizzandoli
ed includendoli e coinvolgendoli nel suo progetto creativo di installazione scultura.
E’ un’opera che si chiama tavoloITALIA, composta di tanti tavoli quante sono le regioni italiane,
la cui sagoma è
stata abitata, i cui abitanti raccontano
le individuali esperienze di vita italiana e nei cui anditi ciascuno ha lasciato
un dono, una traccia di memoria o desiderio o aspirazione.
Possiamo parlare di condensazioni concettuali o visuali di
vite ed esperienze spesso molto diverse, ma caratterizzate tutte almeno da un
passaggio , più o meno lungo, più o meno superato, nelle
strettoie dell’esclusione o del razzismo.
Che cosa avviene quando un artista, nel nostro caso l’artista italo-
catalano Anton Roca, entra a creare un’opera su e insieme a persone di margine?
Invitato da me , che appartengo al cosiddetto sistema
dell’arte e invitato dalla Comunità di Sant’Egidio, che ha creato i Laboratori
sperimentali d’arte per le persone cosiddette disabili, di cui si prende cura
a vasto raggio, in Roma e in Italia? Invitato dalla Comunità di Sant’Egidio che
dal
Che cosa avviene ai marginali
e agli esclusi in questo incontro creativo e di collaborazione?
Perdono la loro tipizzazione
, la loro esclusione e diventano persone, creano, mettono in gioco i loro
limiti e istituiscono segni, ristabiliscono il contatto proibito col mondo.. Si
cancella la “smemoratezza”, si attua un racconto, si condensa una idea, un pensiero
critico, una immagine.
Che cosa avviene all’artista?
Cambia, perde i suoi pregiudizi,
crea una altra opera d’arte delle sue, specifica di questa
nuova relazione col mondo dell’altro, dell’escluso,
Che stiamo facendo?
L’entrata in campo di artisti affermati (cioè legittimati dal sistema dell’arte)
nei laboratori di Sant’Egidio, non è che l’ultimo atto di un lungo processo intrapreso
dai membri della Comunità di Sant’Egidio,che operano volontariamente e gratuitamente
fin dagli anni della fondazione.
I disabili appartengono
alla schiera grandissima di quelli che sono gli Ultimi nella nostra società organizzata
standardizzata, normata secondo i pregiudizi difensivi , che sono patrimonio ahimè permanente della maggior parte di noi.
Esclusione, ghettizzazione, emarginazione, cacciata,
nascondimento, sono la moneta corrente che viene spesa.
La società così sublima una fondamentale ignoranza ed indifferenza verso l’altro,
il diverso dalla normata standardizzazione.
Dicevo che questo è l’ultimo atto,talvolta
il più travolgente, di un processo che nella comunità di Sant’Egidio, inizia da zero,attraverso una relazione con loro da
persona a persona, e poi: con la sottrazione alla ghettizzazione o all’istituzionalizzazione
e all’esclusione dai luoghi del lavoro,
dai luoghi della società, talvolta dalla famiglia stessa; procede con la creazione
di leggi per l’inclusione nella scuola in classi comuni (e non differenziate),
continua con la sollecitazione di processi comunicativi individuali (parola, scrittura)
fisicamente impediti ma attivati con moderne tecnologie informatiche; con la creazione
e immissione in lavori; con la realizzazione di luoghi –i laboratori del disegno
e poi sperimentali di arte- luoghi di incontro periodici sistematici, nei quali
si studia, si discute, si tematizza, si osserva e analizza il mondo, si crea.
Rottura totale del pregiudizio
della stupidità, scoperta dell’intelligenza inespressa, svelamento di punti di
vista percettivi e critici nuovi, di persone speciali insomma, con le quali si
può felicemente godere insieme della vita e dei suoi disastri.
L’entrata in campo dell’artista
è stata intuitiva, nei curatori dei laboratori: (non artisti, loro). Ma
la verità è che artista e cosiddetto disabile vengono a trovarsi in un punto che
dona loro un punto di stazione(Brandi) analogo, da cui partire per ordire la
propria significazione sul mondo, sulla realtà:
L’artista infatti è proprio l’Altro: E’colui che , consciamente o inconsciamente,
il giorno che si fa “artista”, si mette anche in congedo dal mondo, si separa,
si riconosce altro: ed è “dannato per
sempre” , però, a fare del mondo la materia privilegiata della sua creazione artistica:
da quel momento ogni azione di quell’uomo artista sarà affermazione di identità
di sé nel confronto critico col mondo, col reale. Mondo con cui oggi molti artisti
instaurano un processo relazionale, chiamandoli io per questo
artisti “ipercontemporanei”.
Il processo dell’artista
è misterioso. La sua decisione, auto iscrizione, insondabile. Ma chiara. La scelta, essenzialmente etica. Uno di questi,
ad esempio, è Anton Roca, che ha una lunga storia di “avvicinamento” che ha chiamato
“luogo comune”, di relazione e di inclusione nell’opera
sua di figure, persone, in stato di sofferenza o uscite da uno stato di esclusione,
oppure persone ormai avviate in un difficile processo di inclusione sociale. Così
era nata anche l’opera di Roca TAVOLǼUROPA,
Il marginale o il disabile,
d’altro canto,nel suo stato di escluso, ghettizzato,
rifiutato o cacciato, nascosto o istituzionalizzato (messo cioè separato, in una
istituzione di segregazione), è stato reso
artificiosamente Altro.
Ininterrotta la dimenticanza
della persona e della sua storia, rotti i confini dei limiti fisico neurologici, naturali, alla comunicazione,
il disabile resta –per decisione sociale
perversa, un diverso dalla norma socialmente
e culturalmente iscritta. Anche lui il disabile è proprio un Altro,, con
il mondo davanti a sé. Ma anche lui, è ora pronto all’azione, alla affermazione di sé come persona, alla azione sul Mondo.
L’incontro e il lavoro insieme
con l’artista, il lavoro nei laboratori d’arte, è talvolta
esplosivo: insieme si accingono all’azione creativa di sé sul mondo; da sé al
mondo.
La parola restituita, inoltre,
e lo studio della storia contemporanea
consente loro di lanciare messaggi, parole, giudizi, sulla storia d’Italia negli
ultimi 150 anni. Un giudizio che viene dal loro punto di vista qui ora, attuale.
L’escluso, l’emigrante qui
inseguito da leggi severe, cosiddette della
paura, dopo
essere stato realmente inseguito nel
suo lungo cammino di fuga da paesi inaccettabili; il carcerato, cui non è stata
offerta una ipotesi di riabilitazione e reinserimento, come invece previsto dalla
nostra Costituzione; l’ex-deportato in campo di concentramento nazista che non
ha potuto o voluto raccontare l’umiliazione delle violenze subite e ossessionato
dalla propria memoria e dall’indifferenza dolorosa dei concittadini; i barboni
o i senza casa (che sono 6000 oggi a Roma); gli invisibili – i bambini nati in
Italia ma non riconosciuti italiani; i vecchi abbandonati e terrorizzati e depressi
nella solitudine non cercata; i rom, scacciati da un campo all’altro, oggetto
di pregiudizi atavici e storici, che loro stessi smentiscono in un cambiamento
culturale sempre più evidente: tutti loro raccontano, invitati da Anton Roca o
invitati a farlo, da sempre, dagli amici della comunità. Ed il racconto di ciascuno
di loro o si concentra in un gesto , in un dono di tracce
che Roca ha chiesto loro. Chiesto come un gesto/dono di un desiderio inaudito,
o gesto/dono relativo a una memoria orribile e di una parte nascosta di
sé: come segni, infine di “abitazione” di “modo di abitare” il territorio fisico
e psicologico dell’Italia.
L’alterità riguarda l’arte?
Ma questa
esclusione o autoesclusione, questa condizione di marginalità , insomma
questa condizione di alterità, riguarda l’arte? Perché?
Sì, perché da storica , cioè da storica non solo dell’arte, ho visto che da sempre,
in special modo nella grande cultura italiana dall’Unità in poi, che l’Alterità
ha riguardato l’Arte.
Il mondo dell’Italia nascosto,
separato, rifiutato, disprezzato, segregato, schiavizzato, ha richiamato gli uomini
artisti fin dagli anni 1880, e ciò ha determinato dei mutamenti,
nella vita, delle scelte nel linguaggio, delle scoperte scientifiche nella medicina
e nella pedagogia, delle rotture infine delle gabbie istituzionali, che fanno
dell’Italia un paese all’avanguardia. Che resterebbe tale, se –speriamo temporaneamente,
non fosse l’Italia oggi dominata da detentori della opposta
cultura del disprezzo, del razzismo, della paura.
L’artista, in quanto tale
– ma anche in quanto catturato dagli originari ideali umanitari- e l’arte in quanto
atto determinato al gesto creativo di trasformazione di un mondo e inaccettabile,
sono stati perno propulsivo di cambiamenti importanti
nella mentalità e nel costume.
Quando –come oggi- si disperava
che l’arte cambiasse la vita- ritessiamo questo filo rosso, dell’Arte, di certi
uomini artisti, che cambiano la vita.
Ma attenzione è una cosa
di arte che non è solo arte , come purtroppo accade di leggere
nella letteratura critica e nella storiografia dell’arte., dove la integrità complessa
di senso e ruolo dell’arte appare sbiadita.
E’invece una cosa che vede incontrarsi e muoversi a questo avvicinamento pittori,(Nino
Costa, Giacomo Balla, Duilio Cambellotti, i XXV della Campagna Romana) insieme a poeti
(Giovanni Cena), insieme a medici(Angelo Celli), insieme ad attrici e scrittrici
(Sibilla Aleramo), a pegadogisti (Alessandro Marcucci), Filosofi (Maria Montessori)
e perché non anche parlamentari (Angelo Celli), psichiatri (Franco Basaglia),
sacerdoti artisti (don Milani).: uno straordinario movimento tra campi,
un movimento interdisciplinare tutto umanistico.
Mi chiedevo come sia possibile,
ancora, la persistenza di un incredibile numero di strutture costrittive e di una scuola
non ancora integralmente “inclusiva”, qui in Italia dove possiamo un tracciare
quel lungo ininterrotto filo rosso di azioni, metodologie educative, iniziative
liberatorie delle facoltà e dell’intelligenza, che attraversa la storia dell’Italia
Unita, spezzato solo sotto
E’ lì, in occasione della grande Mostra ai Prati
di Castello per il Cinquantenario dell'Unità, dove i Sovrani visitarono con meraviglia
le attività delle scuole, ricreate in un apposito padiglione
provvisto di capanna-scuola, che l’Italia poteva sembrare africa, con le sue vere capanne circolari
coperte di tetti di paglia, là nella palude pontina, dove coabitavano più famiglie
di contadini.
"Ecco la scuola
doveva dare a questi ignoranti e reietti, senza terra, senza anagrafe, una cittadinanza
umana e civile. Era questo ben altro assunto che fargli compitare ed eseguire
un addizione! La scuola con tutti i suoi sviluppi diveniva
lo strumento non soltanto di assistenza materiale, ma di un affermazione dei diritti
sociali, di una denunzia al mondo civile d'una superstite feudalità tanto più
iniqua quanto più si esercitava sotto forma di commercio, all'ombra di qualche
articolo del codice."
Il medico
Angelo Celli comprese anche che occorreva scuotere le popolazioni analfabete portate
ad un'accettazione fatalista della malaria. A lui in particolare si deve non a
caso ricondurre la promozione della costituzione dell'ente
nazionale Le Scuole per i Contadini dell'Agro
Romano e le Paludi Pontine. L'opera del Celli contro la malaria fu d'esempio
ad altri paesi dai quali ebbe numerosi riconoscimenti (Laurea Honoris Causa dell'Università
degli Studi di Atene , di Aberdeen e del Regio Istituto
di Salute Pubblica di Londra, medaglia d'oro Mary Kingley dell'Istituto di Medicina
Tropicale di Liverpool ).
Il libri
di Maria Montessori (1870-1952) furono bruciati dai nazisti, prima a Berlino e
poi a Vienna durante l’occupazione nazista dell’Austria. Perché faceva tanto paura? Fonda nel 1907 nel quartiere romano di San Lorenzo la sua
prima Casa dei Bambini e fin dall’inizio sconvolge i pregiudizi , per il suo impegno
sociale e scientifico a favore dei bambini disabili o di umile estrazione sociale, considerati
handicappati per questo.
Il metodo della pedagogia
scientifica, elaborato nel volume scritto e pubblicato a Città di Castello (Perugia)
durante il primo Corso di specializzazione (1909), fu tradotto e accolto in tutto
il mondo con grande entusiasmo: per la prima volta veniva presentata una immagine diversa e positiva del bambino,
indicato il metodo più adatto al suo sviluppo spontaneo e dimostrata la sua ricca
disponibilità all'apprendimento culturale, i cui possibili risultati non erano
stati mai prima immaginati e verificati.
Fonda nel 1924 (anno della Fondazione
del movimento Surrealista di André Breton, incentrato nel progetto di ricostituire
in unità la personalità divisa dell’uomo moderno),
Per oltre
quaranta anni Maria Montessori sarà presente non solo nella diffusione del metodo,
ma anche nella ricerca scientifica in vista della liberazione dell'infanzia ("la
vera questione sociale del nostro tempo") e della difesa del bambino, l'essere
fino ad oggi dimenticato e sostituito dall'adulto. Dopo Il metodo, ora conosciuto come
La scoperta del bambino, altre opere
vedono la luce: Antropologia pedagogica,
L'autoeducazione nelle scuole elementari,
Il bambino in famiglia, Psicoaritmetica e Psicogeometria, tutte
tradotte all'estero dove il metodo va intanto diffondendosi in modo sempre più
vasto. Non solo ha
scoperto e valorizzato i "nuovi caratteri" del bambino e la sua insostituibile
funzione nella conservazione e nel perfezionamento dell'umanità ("il bambino
padre dell'uomo"). Della sua incessante esplorazione su Come educare il potenziale umano , scaturiscono
le sue idee finali. L’idea della educazione alla pace
e idea della educazione cosmica.
Don Lorenzo Milani (1923-1967),
già Signorino Dio e Pittore, come si definì una volta mentre
a 20 anni studiava da artista all’Accademia di Brera a Milano (sotto i bombardamenti
degli alleati), che nel 43 prende i voti e si dà alla predisposizione all'ascolto
e all' "attesa",nel 1954 dà per così dire il cambio (senza
saperlo?)alla opera della grande Maria Montessori morta due anni prima, quando-
dopo una sua prima destinazione alla parrocchia di San Donato- viene
inviato per punizione a Barbiana , Priore della chiesa di S. Andrea nella
piccola parrocchia sul monte Giovi, nel territorio di Vicchio del Mugello. Lui
che già aveva maturato la distanza tra cultura Accademica e sua interpretazione
dell’architettura contemporanea (l’esperienza collettiva del gruppo di giovani
intorno a Michelucci creatore dell’edifico modello del
razionalismo italiano degli anni 30:
Dalla
osservazione che “ la povertà dei poveri non si misura
a pane, a casa, a caldo, ma si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale”, nasce il suo metodo ed un suo libro famoso: Lettera a una professoressa, su un anno
di attività nella scuola di Barbiana.
“Per lui prete la scuola era il mezzo per colmare
quel fossato culturale che gli impediva di essere capito dal suo popolo quando predicava il Vangelo; lo strumento per dare la
parola ai poveri perché diventassero più liberi e più eguali, per difendersi meglio
e gestire da sovrani l’uso del voto e dello sciopero. Con quella tenacia di cui
era capace quando era convinto di avere intuito una verità
andò a cercare uno ad uno tutti i giovani operai e contadini del suo popolo. Entrò
nelle loro case, sedette al loro tavolo per convincerli
a partecipare alla sua scuola perché l’interesse dei lavoratori, dei poveri non
era quello di perdere tempo intorno al pallone e alle carte come voleva il padrone,
ma di istruirsi per tentare di invertire l’ordine della scala sociale. "Voi
– diceva – non sapete leggere la prima pagina del giornale,
quella che conta e vi buttare come disperati sulle pagine dello sport. E’ il padrone
che vi vuole così perché chi sa leggere e scrivere la prima pagina del giornale
è oggi e sarà domani dominatore del mondo". Aveva una dialettica e una capacità
di leggere dentro straordinaria. Riusciva in ognuno a toccare e far vibrare la
corda più sensibile. Nella sua scuola raccolse giovani operai e contadini di
ogni tendenza politica, presenza che mantenne e ampliò perché dimostrò
di servire la verità prima di ogni altra cosa: "vi prometto davanti a Dio
che questa scuola la faccio unicamente per darvi una istruzione e che vi dirò
sempre la verità di qualunque cosa, sia che serva alla mia ditta, sia che la disonori,
perché la verità non ha parte, non esiste il monopolio come le sigarette",
disse ai suoi giovani uno dei primi giorni di scuola di San Donato a Calenzano;
una scuola dove l’impegno sindacale e quindi l’impegno sociale era considerato
come un preciso dovere a cui un lavoratore cristiano non poteva sottrarsi. Attraverso
la scuola ed i suoi giovani conobbe i veri problemi del
popolo. Entrò nelle famiglie come uno di loro pronto a dare un aiuto su qualunque
questione.” (cfr.: http://www.donlorenzomilani.it/don_milani/)
Compie una grande
rivoluzione culturale, didattica e pedagogica che rifiuta l'indifferenza, la passività
negativa e motiva fortemente l'allievo. La centralità che attribuisce anche alla
educazione e alla sollecitazione alla scrittura, sono di una enorme attualità,
considerando l’analfabetismo di ritorno così diffuso oggi, soprattutto nel nord-
Italia più economicamente avanzato e dove domina la cultura acritica della “società
dello spettacolo”.
“Il desiderio d'esprimere il nostro
pensiero e di capire il pensiero altrui è l'amore. E
il tentativo di esprimere le verità che solo s'intuiscono le fa trovare a noi
e agli altri. Per cui esser maestro, esser sacerdote, essere cristiano, essere
artista e essere amante e essere amato sono in pratica
la stessa cosa”.
Don Milani muore nel 1967:
l’anno dopo esce il libro per tanti di noi cult, L’istituzione negata ,del fondatore di Psichiatria
democratica, Franco Basaglia, colui che riuscì a far approvare la legge 180 sulla
apertura dei manicomi e soprattutto colui che, come Don Milani che si era spogliato
della sua superiorità professionale per farsi uomo tra gli uomini, sospende, mette
tra parentesi ogni pregiudizio terapeutico, per poter “liberare” il malato e “raggiungerlo”
su un piano di libertà.
"Un malato di mente entra nel manicomio
come ‘persona’ per diventare una ‘cosa’. Il malato, prima di tutto, è una ‘persona’
e come tale deve essere considerata e curata (...) Noi siamo qui per dimenticare
di essere psichiatri e per ricordare di essere persone":
così scrive nel 1961 quando diventa direttore del manicomio di Gorizia, dove sono
650 internati.
Il lavoro compiuto in un
rinnovato sistema relazionale basato sull’ascolto e sulla sollecitazione individuale
di pazienti ritornate persone, porta Basaglia nel 1971, quando diviene direttore del Manicomio di Trieste, il San Giovanni,
che aveva allora 1200 pazienti, a ribadire che
Molto è noto dell’opera
straordinaria di Basaglia. Rileggere oggi il “racconto”, ne
L’istituzione negata, del lungo processo
collettivo di scardinamento del pregiudizio e di ripensamento del rapporto tra personale
medico e di custodia degli ospedali psichiatrici e degli uomini che vi erano stati
fino allora “sigillati” per sempre, è di grande dirompenza ed attualità. Se pensiamo al punto in cui siamo oggi in Italia nel sistema carcerario.
Qui, a conclusione di questo sommario ripercorrere il filo rosso che fa da trama
tra Bel Paese e Bel Paese Bello, voglio ricordare anche
un’altra strana ricorrenza, tra tutte le esperienze rivoluzionarie ricordate:
il ricorso alla pratica dell’arte o la dedizione dell’arte , per il compimento
della finalità liberatoria e di consapevolezza critica di uomini esclusi. Infatti
anche Basaglia, a Trieste, istituì subito dei laboratori di pittura e di teatro,
li trasformò in cooperative di lavoro ed economicamente sufficienti, e proprio
lì a Trieste decide lui e le sue equipe insieme ai “malati di mente” di uscire
nel mondo, insomma di lanciare in modo eclatante la deliberazione di apertura
delle porte dei manicomi,e lo fa facendo sfilare per le vie di Trieste in corteo
una “macchina scenica”, un cavallo costruito in legno e cartapesta, seguito da
medici, infermieri, malati ed artisti.
E’ un qualcosa che mi fa
ripensare alla grande sfilata per le vie di Mosca nel 1918, per la festa della
rivoluzione, di grandi sculture costruttiviste astratte e suprematiste su carri,
a indicare la compenetrazione di arte e progetto politico e di libertà sociale. Sappiamo
che quel progetto integrato è stato sconfitto dal muro della inconsapevolezza culturale popolare, ma io credo oggi
anche dalla mancanza di “condivisione”, insomma dall’elitismo culturale dell’epoca nonché a causa della “separazione tra i campi” di azione dell’uomo
moderno (tra politica, arte, scienza, economia, etcetera). La condivisione, la
processualità interdisciplinare e l’uguaglianza dovevano
maturare ed hanno maturato attraverso il sangue, nel novecento.
Mentre per altro verso,
mi sembra che la presenza di arte, artisti, poeti in
tutte le iniziative che quel filo rosso attraversa, filo che indubbiamente raggiunge
oggi anche la storia degli Amici della Comunità di Sant’Egidio tra i disabili,
vada a muoversi parallelamente al darsi della storia dell’arte contemporanea,
che proprio oggi si afferma non come “oggetto”, ma come traccia e come evento
di “relazione” con l’altro, dove la creazione è “messa in scena” di tracce, scarti, rifiuti, frammenti della
attuale concomitanza di frammentazione del soggetto e dei linguaggi. E’ la opera d’arte infinita,
che negli ambiti più avanzati delle tecnologie e della rete digitali si produce
in un procedimento continuo di consegna e rielaborazione dell’altro.
In questo senso giungo a
parlare di una specie di Grande Opera di Arte Relazionale,
per il complessivo lavoro in corso degli Amici, ed - emergenti nel suo flusso
operativo- di Opere individualmente realizzate e compiute.
Simonetta Lux
* Così si identifica Micaela Vinci in una comunicazione digitata al computer, definendo la percezione della propria condizione di handicap comunicativo, condivisa da molte delle persone di cui parliamo. Micaela ha una sordità profonda ed è muta, ma la sua capacità di pensiero e comunicativa è attivata attraverso il computer e il metodo della comunicazione aumentativa.