La memoria come specchio
          Giancarlo Papi
        Non ci è dato sapere quale tipo di approccio si dovrebbe privilegiare 
          per una corretta comprensione dell'arte. Troppi problemi irrisolti dimostrano 
          che le certezze di quanti hanno approntato tesi non hanno fornito la 
          risoluzione di problemi le cui implicazioni sono tali e tante da sfuggire 
          ogni sorta di lettura "definitiva". Troppe fratture, e tra 
          queste una prima sembra separare chi l'opera la fa da chi la fruisce.
          Il lavoro di Anton Roca, che parte da questa consapevolezza, viene dunque 
          da lontano. Alle spalle di quello che è il suo atteggiamento 
          verso l'arte, verso la società, c'è una articolata pratica 
          artistica, fatta di opere a volte molto complesse che non possono essere 
          schematizzate, ridotte a tecniche o a generi come il disegno, la pittura, 
          la scultura. Può essere anche questo, certo, ma Roca nel panorama 
          nazionale è forse l'artista che più di altri recupera 
          il concetto di totalità, così come lo intende Achille 
          Bonito Oliva a proposito di Beuys, tipico dell'artista rinascimentale, 
          dell'artista cioè che ritiene "attraverso l'arte di poter 
          fondare una possibilità di trasformazione della storia, quindi 
          della realtà".
          Ciò significa che Roca ha alle spalle la matrice romantica, nel 
          senso storico della parola, il grande romanticismo tedesco, quello tipicamente 
          schilleriano, dell'arte come emancipazione, come pratica che tende al 
          sociale. Questa sua ricerca vuole portare l'arte in una posizione di 
          centralità e questo è un atteggiamento molto coinvolgente. 
          Ancor di più oggi, nell' "era della complessità", 
          quando l'uomo si è reso conto di dover elaborare un sistema mondiale 
          governabile, in grado di gestire una società multiculturale, 
          dove il continuo confronto delle diversità sociali, etniche, 
          politiche e culturali possa veramente sostituire i precedenti equilibri 
          basati sull'uso della forza, in una sorta di "orchestra delle differenze" 
          capace di intonare l'inno di in mondo transnazionale.
          Angelo è una mostra concepita secondo quest'ottica, nel tentativo 
          di trovare delle risposte praticabili alla domanda che la contemporaneità 
          ci pone in maniera sempre più pressante: come vivere il rapporto 
          con l'altro? Per rispondere a questa domanda, Angelo deve intendersi 
          come una mostra aperta, transitiva che, recuperando il tema della memoria, 
          ci sollecita una riflessione e una presa di posizione.
          Il ricorso alla memoria è uno degli aspetti caratterizzanti la 
          ricerca artistica contemporanea, che si presenta come una vastissima 
          regione solcata da una quantità di percorsi che non segnano una 
          via, ma si vogliono affannosamente percorrere. E non è dato ai 
          viandanti il piacere tutto intellettuale dello sconfinamento e della 
          trasgressione, perché nessun limite è tracciato, così 
          come nessuna indicazione è prescritta.
          Il passato resta con noi fino a quando noi continuiamo a interpretarlo 
          (o a esserne soprattutto interpretati, in quanto inquisiti, incalzati, 
          interpellati dai suoi segnali). Così accade che il passato, ovvero 
          la "storia", incombe su di noi, oltrepassa più di una 
          generazione, ma via via diviene aneddoto e leggenda, per affondare infine 
          nell'oblio. Nessuno ne sa più nulla. Un biografo potrebbe ricostruirne 
          la "verità". In realtà potrebbe ricostruire 
          solo i fatti "pubblici", con la loro verità.
          Con queste osservazioni ci siamo avvicinati al punto essenziale: il 
          passato, quel passato che il senso comune considera come una realtà 
          in sé, avvenuta una volta per tutte, viene rimosso e cancellato. 
          Con Angelo, Anton Roca fa l'operazione inversa. Rende cioè attuale 
          e pregnante il messaggio di pace, di convivenza e di tolleranza, partendo 
          da un terribile eccidio, come quello di Cefalonia del '43, altrimenti 
          lasciato alle rituali e spesso sterili celebrazioni. E lo fa con un 
          linguaggio fresco, semplice, secco basato su un allestimento in cui 
          la fotografia è la principale protagonista.
          Già in tempi lontani Oliver Wendell Holmes aveva attribuito alla 
          fotografia la definizione di "specchio fornito di memoria". 
          In epoca a noi più vicina Roland Barthes ricorda che "la 
          natura della fotografia è la posa" e, dunque, una 'intenzione' 
          di lettura.
          Così che si da per superato l'antico convincimento che vuole 
          la fotografia pura e semplice copia, più o meno verosimile, della 
          realtà. Nel momento in cui si parla di "specchio", 
          si intende una unità produttiva, un luogo, un logos dove l'immagine 
          riflessa diventa altro, si fa simulacro del reale, una forma attraversata 
          dal lavoro del fotografo che la delinea. La fotografia evoca un oggetto, 
          una porzione di mondo, un frammento di realtà, ma non lo rappresenta. 
          Presenta piuttosto la loro assenza. In questo senso essa diventa sempre 
          e comunque uno sguardo dal passato, una reverie. Lo scattare una immagine 
          postula pertanto la coscienza di questo stanziamento temporale, di questo 
          volontario desiderio di spostare verso il futuro un momento appartenente 
          al passato. Ed è in questo gioco di continue andate e di altrettanto 
          continui ritorni che la ritualità fotografica mette a segno una 
          simbolizzazione del tempo perduto: l'inquadratura, ritagliando un angolo 
          di reale, diventa margine di separazione fra l'Io e l'universo, fra 
          un dentro e un fuori, fra ieri e oggi.
          E' attorno a questo concetto che si concentra l'attenzione di Anton 
          Roca con Angelo. Nell'atto di fotografare è cioè contenuto 
          un gesto fondamentale di cui l'immagine ottenuta costituisce la memoria. 
          Memoria in un duplice senso: in quanto prodotto che rimanda a qualcosa 
          d'altro. Innanzitutto alla attualità, a quella più stringente, 
          e Anton Roca, come un suggeritore di coscienze, ci costringe ad affrontarla. 
        
        
        
        
        