EUROPA
anton roca
Al tempo stesso in cui assistiamo allo sviluppo di una identità
europea, in seguito all'unione degli stati presenti in questo territorio,
possiamo constatare il delinearsi di una identità degli esclusi.
Questa realtà è costituita, a mio avviso, da due componenti:
. I popoli già esistenti nel territorio europeo.
. I popoli che si vanno configurando come conseguenza del fenomeno della
migrazione.
Faccio questo azzardato parallelismo tra entrambe le realtà,
tenendo bene in mente le differenze sostanziali rispetto al trattamento
riservato a ciascuna di esse da parte dello stato, che è comunque,
uno stato ospitante per entrambe.
Sono, inoltre, consapevole della divergenza esistente negli obbiettivi
fra ambedue le realtà riguardo alla definizione della propria
identità nel contesto dello stato. Per i primi, cioè i
popoli già esistenti, l'aspirazione è quella di vedere
riconosciuta la loro identità in quanto essa è diversa
da quella dello stato in cui sono integrati.
Per quanto riguarda i popoli di nuova configurazione, è forse
prematuro parlare oggi del flusso di persone migranti in termini di
popolo. Per la relativa novità del fenomeno, ma anche perché
la loro presenza è ancora molto limitata.
Popoli o Nazioni?
La configurazione della maggior parte degli attuali stati, coinvolti
nel processo di unione europea, è caratterizzato dalla presenza
di popoli diversi che, per svariate ragioni politiche e storiche, sono
stati inclusi nella loro struttura.
Mi riferisco ai catalani, galiziani e baschi integrati nello stato spagnolo;
i bretoni, corsi e occitani in quello francese; i sardi e, sempre in
Italia ma in una posizione di confine, i valdostani, retiani e ladini
(i popoli conosciuti come retiano-romanici); i frisoni, oggi divisi
fra Paesi Bassi e Germania; irlandesi, scozzesi e gallesi nel Regno
Unito, per citarne solo alcuni.
Bisogna tener presente che la nascita di questi popoli, oggi minoritari,
risale allo stesso periodo dei popoli che, per ragioni di carattere
storico, politico e militare sono diventati la maggioranza e, di seguito,
i fautori dello stato.
Nei popoli minori esiste, a differenza degli stati, una corrispondenza
tra cultura, lingua, storia ed il territorio che essi occupano all'interno
dello stato. Questa corrispondenza, che è uno dei principi fondanti
l'identità di una nazione, non è ritenuta sufficiente
perché venga riconosciuto a queste realtà minoritarie
il diritto ad esistere in modo indipendente.
La condizione di nazione non dipende dalla quantità di territorio
occupato o dal numero di persone che vi abitano, ma dalla condivisione
di una identità che, in quanto tale, è comune a tutti.
Nazioni mancate, dunque, -non hanno un governo indipendente- che non
sono contemplate nel progetto di unità europea. Non sono considerati
interlocutori validi dal costituendo stato unico europeo e non hanno,
di conseguenza, una rappresentanza diretta nelle nuove strutture democratiche
di tale contesto, se non attraverso lo stato in cui sono integrate.
La realtà di questi popoli varia in relazione al rapporto con
lo stato ospitante. Nella maggior parte di questi esiste già
da alcuni anni un processo di decentralizzazione che conferisce ai popoli
un nuovo status: da semplici regioni che erano, sono diventate "regioni
autonome". Un processo che non intacca l'unità territoriale
dello stato e che si arresta sul punto del passaggio ad una organicità
statale di tipo federale rimanendo ancorata al modello di stato unico.
Infatti, pur essendo diventati regioni autonome, questi popoli sono
considerati dallo stato parte integrante del proprio territorio. (Una
scelta in senso federativo significherebbe il riconoscimento di questi
popoli come nazioni).
In alcuni casi la decentralizzazione in atto ha visto conferire dallo
stato centrale agli enti governanti, democraticamente eletti, queste
nuove regioni autonome il diritto ad usare in modo co-officiale la propria
lingua; la gestione diretta di una parte delle risorse economiche proprie
ed il trasferimento di alcune competenze, quali la sanità, l'ordine
pubblico e l'educazione.
Questo processo di decentramento non è uguale in tutti gli stati
della cosmogonia europea e, quindi, esistono anche sostanziali differenze
nel livello di autonomia raggiunta tra i diversi popoli implicati in
questo processo di rivendicazione.
Non entrerò qui in merito ad una valutazione sul metodo che ognuno
di questi popoli ha scelto per assecondare le proprie aspirazioni. Il
mio tentativo era quello di costatarne l'esistenza. Dirò soltanto
che così come esistono scelte di tipo violento, la maggior parte
di questi popoli ha scelto la via del dialogo politico. Sono convinto
che nei casi in cui la violenza - ETA ed IRA- ha preso il sopravvento,
la ragione è da attribuire all'incapacità di intavolare
un dialogo tra lo stato centrale ed i due popoli cui si riferiscono
le due organizzazioni citate. Fermo restando che non intendo giustificare
affatto la violenza come scelta, in nessun caso.
Dirò soltanto che considero legittime le aspirazioni di questi
popoli all'autodeterminazione, ma ancor prima all'accettazione ed al
rispetto da parte della maggioranza. Condizioni queste che non dovrebbero
coincidere, a mio avviso, con lo stabilimento di nuove frontiere. Non
è lo stato politico ciò che è agognato (anche se
non posso escludere che sia così per tutti), ma il raggiungimento
di uno stato di diritto in cui sia possibile una coesistenza basata
sulla conoscenza, sul rispetto mutuo e sull'accettazione dell'altro.
Sarebbe così difficile?
Comunque, quando sembrava consolidarsi la scelta politica della decentralizzazione
statale, ecco configurarsi nell'orizzonte politico una centralizzazione
ad uno stadio superiore e all'interno del quale gli attuali stati diventeranno
le nuove regioni dell'Europa Unita.
Quale futuro, dunque per i popoli-nazioni mancate?
Diventeranno delle "riserve" culturali?
I nuovi popoli
Nella categoria degli esclusi, oltre al crogiolo di nazioni mancate
presenti sul territorio europeo, si affianca oggi una seconda componente.
Essa è costituita dal flusso costante di persone provenienti
da stati geograficamente situati al di fuori del territorio europeo.
"Extraeuropei" appunto, con una cultura, una lingua ed una
spiritualità diverse da quelle tradizionalmente presenti nel
territorio Europeo.
Diversità che arricchiscono il già variegato mosaico linguistico
e culturale del territorio ed, allo stesso tempo, introducono una quarta
componente spirituale, cioè la religione musulmana, nel panorama
di religioni tradizionalmente esistenti: cattolica, protestante ed ebraica.
Tenendo conto poi del numero di paesi coinvolti nel fenomeno della migrazione,
bisognerebbe più propriamente parlare di tanti popoli piuttosto
che di un unico popolo. Il loro obbiettivo primario però è
quello di essere integrati nella struttura sociale e non di assumere
come propria l'identità dello stato di accoglienza.
A differenza delle rivendicazioni primarie, di natura esistenziale,
quali il lavoro, la casa, la sanità, ecc., le rivendicazioni
riguardo la propria identità collettiva differenziata dalla maggioranza
della popolazione dello stato, avvengono in modo indiretto. Passano,
cioè, attraverso il diritto ad esprimere la propria spiritualità.
-Si tenga conto del ruolo della sfera spirituale nel tenere viva una
identità culturale collettiva, specialmente nelle situazioni
in cui non si hanno dei diritti di carattere storico sul territorio
o in quelle situazioni in cui una minoranza e in forte svantaggio rispetto
alla maggioranza-. Si può dire che spiritualità ed identità
viaggiano di pari passo.
La loro presenza è, infatti, limitata a piccole zone all'interno
del territorio dello stato: una strada, un quartiere, ecc. Questi spazi
diventano i loro nuovi territori, nei quali vi si esprime sia la lingua
sia la religione di origine. (Si pensi ai quartieri della periferia
parigina, dove la cultura del paese ospitante è pressoché
inesistente).
In questo modo si verifica, anche se in una proporzione ridotta, la
stessa corrispondenza che, nel caso dei popoli europei, definiva l'identità
nazionale. Se la condizione di nazione non è in rapporto alla
quantità del territorio che essa occupa o al numero di persone
che ci abitano, allo stesso modo, anche un piccolo gruppo può
ritrovare un senso di comunità, quindi di popolo, in un territorio
ridotto. Anche nel caso in cui l'abitare un determinato territorio non
ne significhi il possesso. (Uso il termine possesso in relazione ad
un territorio, quando esiste una forma legittima di governo riconosciuto
che regola la convivenza della comunità che ci abita).
In ogni caso, questo flusso è all'origine di un fenomeno che
in un futuro non lontano potrebbe diventare la costituzione di nuovi
popoli all'interno del territorio europeo. Penso, però, sarà
molto difficile si verifichi per loro il riconoscimento in quanto popolo,
ed in seguito, di una identità in quanto nazione. La prospettiva
con cui gli stati europei guardano questi nuovi arrivi è quella
di vincolare la loro presenza ad una identità ed appartenenza
extraterritoriale: i paesi di origine appunto. I nuovi arrivati non
sono considerati parte integrante dello stato e ancor meno del costituendo
ambito europeo. Abitano di fatto un territorio del quale non possono
sentirsene parte: sono esclusi in partenza.
Non è un caso si definisca questa nuova popolazione con l'appellativo
di "extracomunitari", come a precludere una qualunque possibilità
di integrazione nell'ambito comunitario.
In realtà i migranti sarebbero da considerarsi fra i primi, tra
gli europei, perché il loro arrivo non risponde al desiderio
di integrarsi in uno stato europeo in particolare, quanto nel contesto
europeo. Il loro arrivo è dovuto alla speranza che il miraggio
ed il fascino che l'Europa suscita nelle popolazioni dei paesi in cui
le condizioni di vita sono di estremo disagio. Non è forse l'aspirazione
a migliorare le proprie condizioni di vita uno dei pilari della cultura
occidentale? Dovremmo dunque essere in grado di riconoscere anche negli
altri una tale aspirazione. Che vogliamo ammetterlo o no, questa è
una grande epopea del nostro tempo. L'impresa da loro compiuta per raggiungere
questo particolare "nuovo mondo" non è tanto distante
da altri fenomeni migratori del passato, ancora oggi considerati dei
mit da parte della cultura occidentale.
Quale futuro per questi cittadini mancati?
L'Unione
Fino ad oggi il progetto di unione europea si è caratterizzato
dall'unione degli interessi economici, tralasciando quella coesione
culturale fondamentale per far crescere dal basso l'idea di unità.
Anziché poggiare su basi culturali, questa koinè degli
interessi, cala dall'alto verso il basso come una "imposizione"
conveniente.
Questa formulazione di fondo non incontra, certamente, le aspirazioni
dei popoli (nazioni mancate), ivi presenti, nei loro desideri di libertà
politica, ma soprattutto culturale.
Se è così per questi, quale potrà essere, dunque,
il ruolo dei futuri popoli frutto della migrazione?
L'idea di unità, che è un'idea forte, rischia di non raggiungere
una realizzazione piena proprio per la non comprensione delle diversità.
Sebbene sia possibile raggiungere l'unione politica degli stati, essa
dovrebbe, per diventare una realtà di fatto, corrispondersi con
la realtà del territorio che si vuole unito e che, come abbiamo
visto, è caratterizzato da un mosaico di culture e di lingue
variegate. La costituzione di una struttura sovrastatale a livello europeo
comporta il pericolo che questa ricchezza venga vanificata.
Quindi, la nuova Europa dovrà tener conto, per diventare una
struttura pluralistica, democratica ed in sintonia con la realtà
del territorio, anche degli esclusi, e non unicamente degli stati riconosciuti.
Il rischio della esclusione dei popoli minori è quello di originare
una realtà parallela all'interno del contesto statale europeo.
Ciò darebbe luogo ad una convivenza senza che ci sia un vero
contatto fra la realtà statale e quelle minori. Vedi un caso
fra tutti: gli Stati Uniti. Uno stato nel quale non esistono formalmente
differenze di alcun genere. La realtà è però che
la sognata terra della libertà ha ancora oggi un colore dominante.
Fino a quando è sostenibile una convivenza la cui caratteristica
sia la sopportazione dell'abitare un medesimo territorio, ma senza una
vera condivisione? Penso ora alla realtà dei paesi Balcanici
dove una situazione assai simile a quella descritta si è rivelata,
con una facilità estrema, un terreno fertile al dilagare dell'odio
razziale, etnico e religioso. Una città come Sarajevo, una volta
modello di convivenza, è diventata lo scenario tangibile di ciò
che l'Europa ha il dovere, ma anche l'esigenza, di evitare al proprio
futuro.
Non è questo il modello che, credo, ci si dovrebbe aspettare
da una possibile unità europea. Il vero "stato di diritto"
è quello in grado di garantire e di comprendere sullo stesso
piano tutte le diversità presenti, indipendentemente dalla quantità
numerica; da aspetti quali il colore della pelle; il credo religioso
o per addotte ragioni di nascita.
Senza questi presupposti le problematiche, le tensioni e le espressioni
di razzismo sarebbero all'ordine del giorno. Più di quanto non
lo siano già oggi.
Questo rischio e meno forte nel contesto europeo, rispetto agli altri
contesti citati, non perché gli europei siano immuni dal razzismo,
ma perché la presenza di nuovi arrivati sul territorio, quindi
la pressione sulla maggioranza, è minore.
Un altro mondo è possibile?
Il mondo?. È quello che abbiamo, quello che abbiamo sempre avuto.
È il modo di pensarlo e di viverlo che è possibile cambiare.
La piccola "globalizzazione" di portata europea è stata
superata dal fenomeno della globalizzazione a livello mondiale. Chi
impone questa ipotesi come fattibile a livello economico e, per quanto
sembra di capire dagli sviluppi attuali, anche militare, dovrebbe essere
altrettanto disponibile ad accettarla per quanto riguarda le persone.
In un mondo globale il concetto di identità coinciderebbe con
la totalità del pianeta. Che valore potrebbero avere allora concetti
come stato, nazione o popolo? Il territorio, non diventerebbe unico
per tutti?
Ecco che da una tale prospettiva le attuali strutture diventano obsolete,
non adatte, decadono. E con esso decade anche l'idea del possesso da
parte di un gruppo -etnico, religioso o quant'altro- su di un determinato
territorio e, quindi, anche la necessità di difenderlo. Se il
referente dello stato in una situazione di globalizzazione fosse il
pianeta, il fenomeno della migrazione cesserebbe di avere un significato
perché la mobilità ed il nomadismo volontario e/o indotto,
avverrebbe non da uno stato verso un altro, ma all'interno del pianeta-stato
unico nel quale, a ragion di logica, si dovrebbe parlare di specie umana
piuttosto che di razze.
Ipotesi idealistica e alquanto utopica, ma senz'altro migliore dell'assurda
situazione odierna: fondamentalismi al servizio della religione e/o
dell'economia in lotta fra loro, con risvolti sempre più esasperanti
e drammatici. Fondamentalismi, o integralismi di sorta, che credono
giustificabile il ricorso alla violenza e che lasciano alla sola forza
delle armi ogni possibilità di incontro.
Per definizione, il fondamentalismo è sempre dalla parte del
giusto, quindi, incapace di una visione riflessiva di sé. Questa
è la sua debolezza. Non c'è nulla di più patetico
dell'arroganza di chi legittima la propria forza nel disprezzo delle
civiltà altrui. Una trappola che, a lunga scadenza, conduce in
modo inesorabile all'autodistruzione.
Il problema è un problema culturale, ma di bassa cultura. Quella
di chi, avvalendosi dal fatto di avere la pelle di un determinato colore
o di professare un certo credo religioso, si arroga il privilegio di
gestire a proprio vantaggio le risorse, comprese quelle umane, ed il
territorio, nel contesto dello stato oggi, come dell'intero pianeta
nell'ipotesi della globalizzazione.
Cultura di basso profilo anche di chi agendo in modo del tutto irrazionale
(si legga terrorismo) non fa che legittimare l'arroganza dell'altro
e contribuisce, a dare una veste di razionalità a delle risposte
che sono al di fuori di ogni giustificazione possibile. (Si legga guerra).
L'incontro
In seguito a queste riflessioni, mi pare ovvio che per una convivenza
in cui prevalga il rispetto e la tolleranza bisognerebbe trovare un
luogo comune, equidistante a tutte le realtà presenti in un determinato
contesto, locale, nazionale, statale o globale che esso sia.
Un luogo comune in cui possa avvenire l'incontro.
Un luogo comune in qui prevalga il rispetto alla diversità.
Un luogo comune in cui sia possibile ribaltare il concetto stesso di
diversità: dal carattere preminentemente negativo ad un senso
di positività, per quanto esso possa significare crescita, ricchezza,
rinnovamento...
Un luogo comune in cui ci si conceda la possibilità di conoscersi,
di imparare a conoscere l'altro.
Un luogo comune neutro, il cui accesso risponda ad una consuetudine
radicata nel profondo ancestrale di ogni singola diversità/identità
culturale.
Quale luogo migliore del tavolo?