DISSONANTE E PLURALE
Giancarlo Papi
"Roma non è più Roma: dovrà riconoscersi
nella metà del mondo o perire".
Sono le parole di un celebre incipit delle Memorie di Adriano di Marguerite
Yourcenar. Difficilmente una dichiarazione che risale dal punto di vista
della storia letteraria a qualche decennio fa, ma è attribuita
nella finzione a un uomo vissuto all'inizio della nostra era, potrebbe
risuonare più attuale e urgente di questa.
Il nostro orizzonte - "nostro" di noi, cittadini europei del
XXI secolo - si è infatti straordinariamente allargato e nel
contempo, per quanto paradossale ciò possa apparire, delimita
un mondo che si è al contrario fatto più piccolo ed è
sempre più simile a quel villaggio globale preconizzato da Marshall
McLuhan.
I "barbari" non premono più alle frontiere, perché
le hanno da tempo oltrepassate, percorrono le nostre strade, incrociano
con i nostri i loro destini.
L'incontro con l'Altro non può essere ulteriormente rinviato.
Deve avvenire qui e oggi, se si vuole offrire al mondo una possibilità
di non troppo atroce sopravvivenza. Un mondo in cui la ipertrofica moltiplicazione
dei linguaggi attraverso i quali si esprime il nostro tempo si mescola
e si fonde in una Babele senza confini, dove nessuno sa più intendersi,
in città sovraccariche di immagini e di parole e affollate di
anime morte.
Parlando oggi di arte, tacere di questo sarebbe come rinunciare all'estrema
e meno effimera possibilità di progettare il futuro. L'arte non
può mostrarsi indifferente né all'aprirsi di nuove e impreviste
prospettive di elaborazione culturale (l'incontro con l'Altro), né
al processo di delegittimazione che i nostri linguaggi hanno progressivamente
subito e ancora subiscono.
Tocca innanzitutto all'arte rielaborare un lessico, una grammatica,
una sintassi capaci di esprimere con verità e intensità
il nostro presente, dando conto di ciò che è, ma soprattutto
evocando e nutrendo le nostre speranze.
Il linguaggio tradizionale dell'arte deve essere infranto, come si infrange
un idolo che arresta, impoverisce e deifica la fede, invece di alimentarla,
di sostenerla e di infiammarla. Ora però è tempo che i
frammenti che ancora ci restano fra le mani, per quanto scheggiati e
insozzati, si ricompongano in unità, magari includendo le scorie
che si sono mescolate, i pezzi spuri, quanto è irrimediabilmente
diverso.
Ciò non si potrà fare esprimendo una cieca fiducia nelle
capacità catartiche di una lingua agonizzante; ciò sarà
forse possibile abbandonando ogni sicurezza, infrangendo ogni schema,
rifuggendo da ogni luogo comune.
L'arte non ritroverà mai più se stessa, ma potrà
costruirsi una nuova identità se saprà evitare l'isolamento
sterile e superbo, ma non la mescolanza impropria e incongrua, se saprà
rinunciare all'irrealizzabile sogno della palingenesi, e non accetterà
per ciò l'inaccettabile, se ritroverà la pienezza dell'azione,
della poesia, della libertà.
Anton Roca si muove in questo ambito e proprio per questo il suo lavoro
risulta di non facile catalogazione perché per lui l'arte non
è solo "immagine", "forma", "opera",
ma processo liberatorio, atto politico quanto artistico. Pochi artisti
come Roca sentono intensamente l'unità tra arte e vita, tra esistenziale,
poetico e politico. L'arte si identifica con la vita come principale
atto di libertà, come forza dirompente, come creazione di mondi
possibili.
Se, come sostiene Francesca Alfano Miglietti, "l'arte è
il luogo, il luogo del diverso, del possibile ed esiste non per riprodurre
il mondo ma per cambiare la vita", allora possiamo dire che proprio
in questo consiste la dimensione di Roca, un artista che opera nel preciso
intento di rivalutare l'identità della dignità umana,
di restituire all'uomo la coscienza della propria forza creativa, la
capacità, cioè, di cambiare il mondo.
Uno spazio di riflessione, di presa di coscienza, di creatività.
E' questo che Anton Roca intende per arte, uno spazio che ha deciso
di sottrarsi ad una attualità che vede i modelli culturali a
taglia unica, uno spazio che non vuole cedere alle regole del gioco
sporco, agli incontri truccati, all'esserci a tutti i costi, rivendicando
l'autoconsapevolezza di un percorso poetico, di un'esistenza etica,
di un approdo che sceglie la vita.
Cosa intenda per "esistenza etica", Roca lo dichiara con questa
mostra con cui porta a sintesi una ricerca condotta nel corso degli
ultimi tre anni, nel corso dei quali l'esperienza quotidiana ha messo
alla prova la capacità di misurarsi con le proprie origini e
tradizioni, di mettersi in discussione nel confronto con culture diverse.
Così che la sua arte si è sottratta al limite definito
dei valori certi, per immettersi nel flusso creativo di nuovi modelli
sperimentali e interpretativi della realtà.
Appare dunque evidente come in Roca il pensiero teorico e la pratica
artistica coincidono nel senso che assistiamo alla realizzazione concreta
delle idee nelle azioni, nelle opere, nel "comportamento".
Il suo concetto ampliato di arte abbraccia non solo le tradizionali
tecniche e discipline quali la pittura, la scultura, ma comprende qualsiasi
attività creativa nella sfera dell'esistenza umana. In un'epoca
quale quella attuale, quindi, l'arte deve essere il risultato di un
azzeramento, un bisogno sociale e civile e questa nuova arte deve avere
coscienza delle radici storiche, senso del presente e guardare al futuro,
trasformando l'esistenziale , la cultura "materiale" in codice
poetico. Lo scopo è di far sì che le comunità conoscano
se stesse, quindi le loro identità e prendano coscienza delle
proprie possibilità creative.
Ecco perché in Roca il comportamento significa assumere la realtà
come campo di riferimento di tutti i mezzi e materiali possibili. L'artista
passa dall'oggetto all'azione e dall'azione all'oggetto, al gesto e,
se il comportamento significa ritorno alla vita, questo indica un ritorno
ai contenuti, un ritorno all' "esistenziale". Dunque in Anton
Roca etica ed estetica sono un unicum riassumibile nel suo "metodo
comportamentale". La sua ricerca, il suo essere e fare è
riassumibile nella definizione di "esploratore poetico", ricollegabile
al bisogno di praticare la conoscenza trasgredendo i codici preesistenti
in un desiderio di sconfinamento perché non è importante
"l'oggetto d'arte" quanto la sua forza dichiarativa, la sua
capacità di influenzare il pensiero, lo spirito, il suo senso
popolare e politico.
L'arte ora si dà come linguaggio del limite e del margine e della
soglia, si presenta sia dal punto di vista del linguaggio che della
forma, come un discorso marginale, perché solo nei margini è
ormai possibile trovare le parole che articolano un sapere che appartiene
a questa realtà: la realtà del nostro tempo.
Simone Weil ha detto che la "bellezza" deve rendere visibile
la contraddizione, e questo vuol dire anche "scandalo", "smembramento",
"rottura della forma omologata", pensiero che si pensa insieme
al suo contrario, per cui ogni bellezza è una contraddizione
irriducibile. E' Franco Rella che ci aiuta a vedere la "bellezza"
come "complexio", come forma del possibile, come etica capace
di confrontarsi con questa civiltà tecnologica. E' quanto sta
facendo Anton Roca con la sua ricerca dissonante, plurale.
C'è una teoria della critica che dice che non si deve sollevare
alcun velo dell'opera, ma attraverso la conoscenza del velo stesso arrivare
all'intuizione della "bellezza" che è propria dell'opera
stessa: all'intuizione del bello come segreto, come mistero, come paradosso,
come enigma: come forma di un sapere che è visione del mondo.
E questa è anche la "bellezza" che sta dentro l'involucro,
o l'aura, delle opere di Anton Roca, la bellezza del pensiero, dell'esperienza
fondamentale della conciliazione dei linguaggi, delle etnie, delle culture.